Giovanelli Emanuele

Emanuele Giovanelli nacque a Trecasali, in provincia di Parma, il 27 maggio 1926 da Vittorio, conduttore capo delle Ferrovie dello Stato, e da Linda Manfredi, maestra elementare, il cui padre aveva combattuto a Bezzecca con Garibaldi.
Crebbe nella quiete della campagna parmense, all’interno di una famiglia molto serena, presto allietata dall’arrivo di altri due figli maschi.
Nel 1934 Emanuele si trasferì a Bologna con la famiglia, in via Oriani, 30. Studente del “Galvani”, anticipò l’esame di stato alla II liceale e pertanto risulta diplomato nel 1944.
Dopo l’8 settembre 1943, appena diciassettenne, aveva svolto attività di collegamento tra le bande partigiane soprattutto in Romagna e, forse, la decisione di anticipare il diploma, concludendo degnamente un percorso di studi fatto con successo e passione, fu presa per darsi completamente alla lotta partigiana.
La famiglia non era sfollata a causa dell’infermità della nonna. Alle due di notte del 15 giugno del 1944, i tedeschi piombarono in casa e prelevarono Emanuele e il padre. Emanuele, diciottenne da pochi giorni, risultava renitente alla leva e forse era segnalato per la sua attività precedente.
Trasferito al campo di concentramento e smistamento di Fossoli per essere deportato in Germania, Emanuele venne ucciso il 12 luglio 1944. L’episodio, unico nel suo genere in quel luogo, vide il sacrificio di 67 italiani. La tesi più verosimile è che si trattasse di una rappresaglia tedesca per i sette loro soldati uccisi a Genova un mese prima. Settanta, infatti, furono i prigionieri scelti, ma uno si nascose con successo e due riuscirono a scappare. Le vittime vennero uccise nel recinto del tiro a segno, ai bordi di una fossa già scavata da ebrei del campo, in tre turni, secondo l’ordine alfabetico. I primi furono messi in ginocchio e ammazzati con un colpo di pistola alla nuca; il secondo gruppo tentò di ribellarsi e venne massacrato dalla guardia russa a sventagliate di mitra. I due che riuscirono a fuggire appartenevano a questo. Per il terzo gruppo si seguì il macabro rito del primo. Emanuele Giovanelli si trovava nel secondo gruppo.
Sepolto alla Certosa, presente nella grande lapide di Palazzo d’Accursio, è ricordato al Galvani ogni anno col conferimento di un premio alla sua memoria.
Il “Galvani” conserva il ricordo di una commovente lettera della madre.

Il mio figliuolo Emanuele nacque nella generosa terra parmense nel 1926. Ero maestra in un paese della bassa pianura, lontana da mio marito, capotreno a Ferrara. Per compiere meglio il mio dovere materno lasciai la mia casa di Parma e mi trasferii dove insegnavo.
Rivivo con nostalgia quegli anni densi di lavoro e colmi di speranze. Lele crebbe sano e buono nella quiete e nella pace della campagna, aspettando come festa il ritorno del papà, nei brevi riposi. Nacquero a S. Quirico di Trecasali anche gli altri miei figli Luciano e Ugo.
Nel 1934 ebbi il trasferimento nelle scuole di S. Lazzaro di Savena (Farneto), perché mio marito era stato mandato qui a Bologna.
Lasciai ogni cosa nella fiducia che ciò fosse per il meglio. Lele intanto cresceva e si faceva ognora più espansivo ed affettuoso; studiava volentieri, leggeva molto e godeva nel vivere all’aperto e girare con suo padre. Nella memoria è l’immagine del suo fresco viso, illuminato dagli scuri occhi dolci: quando mi guardava, io scordavo tutto: pensieri, stanchezza, guai. Dopo la sua perdita, fra i piccoli della mia scuola io sempre ricercavo il sorriso di Lele e m’incantavo nel mirare la luce dei loro occhi innocenti. Amava irradiare, fare del bene a tutti: paziente coi fratelli, affettuoso con la nonna, di animo aperto e sincero con gli amici. La sua adolescenza piena di grazia, esuberante di salute, che non sfociò nella giovinezza, fu come un soave mattino di primavera: luminoso di sole, gonfio di speranze.
Aveva un delicato sentimento religioso: spesso, avanti di andare a scuola, serviva alle saette la Messa nel convento dei frati di via Guinizelli, preparava il suo presepe con entusiasmo, saliva rapido, da solo, a piedi sul colle della Guardia, dal nostro viale Oriani. Quando, nel silenzio della notte, studiava, desiderava di avermi vicina e, delle volte, diceva: “Come si sta bene al mondo!”. Sentiva di spandere gioia e di ricevere affetto da chi lo avvicinava.
Nel 943, dopo l’8 settembre, Lele fece parte delle prime formazioni partigiane (così mi riferirono gli amici): svolse un’azione di propaganda, di collegamento in Romagna. Frequentando la seconda liceale, si preparò a sostenere l’esame di maturità. Temeva nella primavera del 1944, nel compiere i diciott’ anni, di essere chiamato sotto le armi al servizio dei tedeschi: quei tedeschi che il nonno materno aveva combattuto giovinetto a Bezzecca, restando ferito. Trema il cuore nel pensare agli ultimi mesi della sua breve vita. Quando ottenne la licenza di maturità, in maggio, io e mio marito fummo felici: scordammo le angustie e le privazioni della guerra.
Per Lele e per la nonna inferma a letto non eravamo sfollati, ignari che, ben presto, la bufera si sarebbe addensata sul nostro capo, squassando ed incalzando la nostra vita.
Nella notte del 15 giugno alle due i tedeschi piombarono in casa e portarono via Lele e mio marito. A distanza di anni, quell’ora tragica, quasi sempre mi trova in piedi e mi fa stare col fiato sospeso. Precipitarono gli eventi: dopo gli interrogatori di S. Chiara, ai primi di luglio, fu mandato al concentramento di Carpi e il 12 fu tra i Martiri, forse il più giovane di Fossoli.
Nella casa triste, silente, Egli vive: io Lo vedo ovunque, risento la sua voce e quando son sola, nei muti colloqui, Egli mi consola, con la fede che unica m’incammina verso di Lui.